Great Ocean Road: a great experience
Sposarsi è già una grande
avventura e inaugurarla con un viaggio home-made è il modo migliore per
renderle omaggio. Credo che i viaggi debbano assomigliare a chi li affronta ed
è con questo spirito che io e mio marito abbiamo progettato la “luna di miele”
in Australia. Ma nonostante la cura messa nell'organizzazione di ogni singola
tappa, abbiamo lasciato un pezzo di cuore lungo una strada in particolare,
un'avventura che consiglio a tutti quelli che considerano il viaggio una
scoperta.
La Great Ocean Road è lunga “solo” 250 km, ma i paesaggi che regala l'hanno resa una delle highway costiere più famose del mondo. Parte dai dintorni di Melbourne e termina ufficialmente a Warnambool, percorrendo la costa variegata e immaginifica che si affaccia sul Southern Ocean. Una strada troppo bella per lasciarsela scappare, bisogna attraversarla!
Abbiamo noleggiato un piccolo camper, dotato di tutti i comfort eccetto il bagno, una mancanza facilmente superabile alloggiando negli attrezzatissimi campeggi australiani: prezzi economici, ottimi servizi e quel particolare senso di condivisione che accomuna tutti i campeggiatori. Capitava spesso infatti che la gente ci sorridesse salutandoci con cordialità. Come se non bastasse essere dall'altra parte del mondo per sentirsi a milioni di anni luce dall'Italia!
Il tour comincia da Torquay, una ridente cittadina costiera come tante altre, se non fosse per la sua storia sportiva: la sua spiaggia più famosa, Bells Beach, ospita ogni Pasqua la competizione internazionale di surf più longeva del mondo, conosciuta oggi come Rip Curl Pro e che quest'anno festeggerà il cinquantaduesimo anniversario. Una gara sportiva tra le più emozionanti e non solo per gli spettacolari gesti atletici. La spiaggia è infatti incastonata in una costa alta e ricoperta di arbusti verdissimi affacciati sul blu acceso dell'oceano. Un ambiente che viene gelosamente custodito dai surfisti che dal 1988, con il movimento SANE (Surfers Appreciating the Natural Environment) lo proteggono da speculazioni turistiche. Ma non abbiate timore viaggiatori! La spiaggia e la costa sono facilmente visitabili grazie a passerelle e terrazze in legno che si inseriscono perfettamente nel contesto naturalistico. E non potrebbe essere altrimenti: posti così vanno guardati da dentro, con il vento che taglia la faccia e lo sguardo che affronta spazi immensi, non sarebbe la stessa cosa dal balcone di un hotel. Per chi sapesse poco o niente di surf, niente di meglio di una visita al Surf World Museum: piccolo ma davvero curato in ogni dettaglio; bellissimo ripercorrere la storia delle tavole osservandone i diversi modelli costruiti negli anni, a partire dalle prime in legno fino alle più moderne in leggera resina.
La Great Ocean Road è lunga “solo” 250 km, ma i paesaggi che regala l'hanno resa una delle highway costiere più famose del mondo. Parte dai dintorni di Melbourne e termina ufficialmente a Warnambool, percorrendo la costa variegata e immaginifica che si affaccia sul Southern Ocean. Una strada troppo bella per lasciarsela scappare, bisogna attraversarla!
Abbiamo noleggiato un piccolo camper, dotato di tutti i comfort eccetto il bagno, una mancanza facilmente superabile alloggiando negli attrezzatissimi campeggi australiani: prezzi economici, ottimi servizi e quel particolare senso di condivisione che accomuna tutti i campeggiatori. Capitava spesso infatti che la gente ci sorridesse salutandoci con cordialità. Come se non bastasse essere dall'altra parte del mondo per sentirsi a milioni di anni luce dall'Italia!
Il tour comincia da Torquay, una ridente cittadina costiera come tante altre, se non fosse per la sua storia sportiva: la sua spiaggia più famosa, Bells Beach, ospita ogni Pasqua la competizione internazionale di surf più longeva del mondo, conosciuta oggi come Rip Curl Pro e che quest'anno festeggerà il cinquantaduesimo anniversario. Una gara sportiva tra le più emozionanti e non solo per gli spettacolari gesti atletici. La spiaggia è infatti incastonata in una costa alta e ricoperta di arbusti verdissimi affacciati sul blu acceso dell'oceano. Un ambiente che viene gelosamente custodito dai surfisti che dal 1988, con il movimento SANE (Surfers Appreciating the Natural Environment) lo proteggono da speculazioni turistiche. Ma non abbiate timore viaggiatori! La spiaggia e la costa sono facilmente visitabili grazie a passerelle e terrazze in legno che si inseriscono perfettamente nel contesto naturalistico. E non potrebbe essere altrimenti: posti così vanno guardati da dentro, con il vento che taglia la faccia e lo sguardo che affronta spazi immensi, non sarebbe la stessa cosa dal balcone di un hotel. Per chi sapesse poco o niente di surf, niente di meglio di una visita al Surf World Museum: piccolo ma davvero curato in ogni dettaglio; bellissimo ripercorrere la storia delle tavole osservandone i diversi modelli costruiti negli anni, a partire dalle prime in legno fino alle più moderne in leggera resina.
Ma nonostante l'aiuto offerto dalla
tecnologia, è il rapporto del surfista con l'oceano, il linguaggio segreto che
fa comunicare l'uomo con l'onda, il vero cuore di questo sport che più spesso
diventa filosofia di vita. Ce ne siamo resi conto osservandoli dalla terrazza
panoramica sulla scogliera: una cinquantina di surfisti se ne stavano immersi
in quelle acque gelide, in attesa. Era chiaro il senso profondo di comprensione
di un elemento, l'acqua, così mutevole e incostante: non si può controllarne la
forza, ma la si può cavalcare. E per loro non c'era niente di
più importante in quel momento, tutta la loro vita concentrata nell'attesa di
un attimo, niente progetti o pensieri, i surfisti vivono di presente.
Dev'essere una sensazione strepitosa, direi liberatoria.
Non bisogna però dimenticare
l'aspetto più cinico, diretta conseguenza della fama: il surf è diventato una
munifica macchina da soldi e Torquay infatti ospita il più grande megastore
della Rip Curl,famoso marchio di abbigliamento
surfistico che qui è nato – i surfisti negli anni '70 ne indossavano i capi che
venivano considerati “roba da hippy”.
Ottimo per gli amanti dello shopping, sebbene i prezzi siano abbastanza
spaventosi nonostante il cambio favorevole con l'euro.
Ma questa è stata solo la prima tappa, sulla Great Ocean Road non ci si può fermare, si deve continuare ad andare avanti. Visitarla in tarda primavera (Novembre – Dicembre) significa arrendersi a un tempo veramente pazzo, fatto di giornate assolate e calde e venti gelidi da sud che portano nubi minacciose. Ne abbiamo incontrate diverse di giornate così, ma quel cielo basso e gonfio di nuvole sospeso su un oceano schiumante e una costa frastagliata e verdissima, era uno spettacolo incredibile, dava la forte sensazione di trovarsi in un quadro di Turner.
Ma questa è stata solo la prima tappa, sulla Great Ocean Road non ci si può fermare, si deve continuare ad andare avanti. Visitarla in tarda primavera (Novembre – Dicembre) significa arrendersi a un tempo veramente pazzo, fatto di giornate assolate e calde e venti gelidi da sud che portano nubi minacciose. Ne abbiamo incontrate diverse di giornate così, ma quel cielo basso e gonfio di nuvole sospeso su un oceano schiumante e una costa frastagliata e verdissima, era uno spettacolo incredibile, dava la forte sensazione di trovarsi in un quadro di Turner.
Le Erskine Falls a Lorne
Da Apollo Bay a Lorne, con le sue
Erskine Falls immerse in una foresta di eucalipti e felci giganti dove era
facile sentirsi un alieno catapultato in un mondo odoroso; per arrivare poi a
Cape Otway e al suo faro, il più antico d'Australia, datato 1848. Questo è il
punto che segna la fine della surf coast e l'inizio della shipwreack coast, un
tratto di mare tristemente noto per i numerosi naufragi qui avvenuti. Sotto la fredda superficie oceanica si cela un vero cimitero di relitti e fantasmi, di uomini e navi che hanno trovato la morte fra quelle acque terribili.
Dall'alto del faro abbiamo ammirato il Southern Ocean mischiarsi con le correnti provenienti dallo stretto di Bass e la costa alta e pericolosamente verticale. Basta aprire bene gli occhi per accorgersi della spiritualità di questi luoghi, per vedere le tracce lasciate dal passaggio degli Antenati.
Quando si arriva ai 12 apostoli (da qualche anno diventati undici dopo un crollo), faraglioni solitari che svettano come immense sculture di roccia, questa sensazione diventa reale, colpisce in viso come il vento sopra la falesia alta trenta metri. Uno spettacolo che toglie il fiato, peccato doverlo condividere con tantissimi turisti, molti dei quali giapponesi affamati di foto di tutti i tipi. Ma non è l'unico: infatti fino a Peterborough, dove la Great Ocean Road lascia definitivamente l'oceano, la costa saluta il viaggiatore regalando visioni di altri emozionanti paesaggi rocciosi, come il Loch Ard Gorge, l'Arch e il London Bridge, fino allo spettacolare Bay of Islands Coastal Park.
Dall'alto del faro abbiamo ammirato il Southern Ocean mischiarsi con le correnti provenienti dallo stretto di Bass e la costa alta e pericolosamente verticale. Basta aprire bene gli occhi per accorgersi della spiritualità di questi luoghi, per vedere le tracce lasciate dal passaggio degli Antenati.
Quando si arriva ai 12 apostoli (da qualche anno diventati undici dopo un crollo), faraglioni solitari che svettano come immense sculture di roccia, questa sensazione diventa reale, colpisce in viso come il vento sopra la falesia alta trenta metri. Uno spettacolo che toglie il fiato, peccato doverlo condividere con tantissimi turisti, molti dei quali giapponesi affamati di foto di tutti i tipi. Ma non è l'unico: infatti fino a Peterborough, dove la Great Ocean Road lascia definitivamente l'oceano, la costa saluta il viaggiatore regalando visioni di altri emozionanti paesaggi rocciosi, come il Loch Ard Gorge, l'Arch e il London Bridge, fino allo spettacolare Bay of Islands Coastal Park.
Un tenero koala vicino al faro di Cape Otway
Questa strada è stata generosa
con noi perché non ha risparmiato niente, neanche incontri straordinari con i
più famosi abitanti dell'isola: nessuna gabbia o recinto, qui la
fauna selvatica è alla portata di tutti e ti fa sentire parte di un mondo di
cui sei solo uno dei tanti personaggi. Vedere koala dormire abbracciati a rami
altissimi in posizioni improbabili, stupirsi davanti a goffi echidna che
arrancano tra l'erba o farsi attraversare la strada da una famiglia di emù impauriti,
è un'emozione che non ha parole ma solo volti: i nostri pieni di una gioia
fanciullesca.
Warnambool, la città che segna la fine ufficiale della Great Ocean Road
Arrivati a Warrnambool, alla fine di quella strada spettacolare, ci siamo resi conto che non erano stati i semplici luoghi a emozionarci, ma il viaggio in sé, l'indeterminatezza dei giorni, svegliarsi in un camper e non sapere quale sorpresa ci avrebbe riservato la giornata e la consapevolezza di essere dall'altra parte del mondo, ma insieme.
Siamo tornati, ma qualcosa di noi è rimasto su quella costa e non ha alcuna voglia di tornare indietro.
ALICE
UNA CHICCA....
Se vi trovate a passare da Lorne, ecco un posto davvero carino in cui mangiare un hamburger strepitoso. Tutto home-made:
www.thebottleofmilk.com
Se vi trovate a passare da Lorne, ecco un posto davvero carino in cui mangiare un hamburger strepitoso. Tutto home-made:
www.thebottleofmilk.com
Un salto a Kangaroo Island
Vista dal ponte del traghetto: Pennashaw
Si prende il traghetto in una cittadina che quasi non esiste, Cape
Jervis, ma non importa. Ce la si lascia alle spalle senza rimpianti, gli occhi
rivolti verso una piccola isola che promette però grandi emozioni, l’isola
della fauna selvatica: Kangaroo Island. Il nome, abbastanza banale, è dovuto
alla presenza numerosa di una sub specie endemica di canguro grigio; gli
aborigeni la chiamavano invece “Karta” che significa “ isola dei morti”: erano
infatti poche le tribù che sfidando questa credenza vivevano qui e ben presto
l’isola si svuotò. La ricolonizzarono gli inglesi, inizialmente cacciatori di
foche e poi agricoltori, ma l’isola non decollò mai dal punto di vista
demografico (il che sotto certi aspetti è stato un bene).
E infatti l’abbiamo trovata così: abbandonata, selvaggia, a tratti triste, ma estremamente emozionante. Sbarcati a Pennashaw con il nostro fidato camperino ci addentriamo nell’isola, direzione Seal Bay. La prima impressione non è delle migliori: numerosi pascoli aridi e abbandonati fanno pensare a un tentativo di sfruttamento andato male che però ha lasciato dei segni. Le strade asfaltate sono pochissime e quando ci si allontana dai radi centri urbani è come ritrovarsi immersi in un mondo parallelo fatto di solitudine, tanto verde, strade di terra rossa e spesso carcasse di canguri e goanna morti.
Per chi come noi ha sempre desiderato venire in Australia ritrovarsi in questi luoghi dà una sensazione fortissima, quasi carnale, come sognare e non riuscire più ad aprire gli occhi. Ma conviene spalancarli per bene quando si sale sulla Prospect Hill, il punto più alto della zona e che fu raggiunto per la prima volta dal noto esploratore, il capitano Matthew Flinders: da qui si può godere di una vista splendida che spazia dal Southern Ocean al Golfo di St Vincent (davanti ad Adelaide), abbracciando l’American River e la laguna dei pellicani. È una scalata dura sotto il sole, sebbene gli scalini agevolino molto il compito, ma ne vale la pena.
Seal Bay si trova sul lato meridionale dell’isola, una piccola baia di sabbia chiara e morbida circondata da dune ricoperte di arbusti. La nostra guida, un simpatico vecchietto che stranamente parla un inglese comprensibile ci dice che i leoni marini li usano come riparo durante l’inverno e in effetti sono così fitti da sembrare grotte verdi. Ma ora è l’inizio dell’estate (inizio dicembre) e una cinquantina di esemplari se ne stanno belli spaparanzati al sole, poco lontani dalla battigia. L’oceano ha un colore elettrico, il cielo terso e quelle creature così buffe e serene fanno pensare a un piccolo paradiso segreto. Il che non è molto lontano dalla realtà: nessun insediamento residenziale-turistico intacca questa zona e comunque in tutta l’isola ce ne sono pochissimi, ubicati soprattutto nella parte nord. Kangaroo Island è un immenso parco che viene professionalmente conservato dagli australiani (popolo molto furbo: in un paese senza attrattive storiche, la natura selvaggia può essere un’ottima fonte di guadagno).
Mi viene subito da pensare che devo essere stata un leone marino nella mia vita passata, ma ci pensa la guida a cancellare questa idea bislacca: il loro infatti è un riposo più che meritato, dopo aver trascorso tre giorni in oceano aperto per nutrirsi, combattendo contro correnti, acque fredde e squali bianchi. No, decisamente troppo per me.
L’incontro ci emoziona parecchio e riusciamo a viverlo completamente anche grazie a un oggetto "magico". Una retina da cappello. Niente di più banale eppure fondamentale perché quando spira vento da Nord (vento di terra), sulla costa arriva un vero flagello: le mosche, un’orda barbarica di insetti ronzanti che si posano su ogni cosa. Mai provato un fastidio del genere, ma per KI si sopporta questo e altro. La retina è stata di vitale importanza perché ci ha permesso di goderci una delle più emozionanti giornate del nostro viaggio. Risaliti sul nostro supermezzo siamo partiti alla volta dell’estremo occidente dell’isola, dove si trova il Flinders Chase National Park. Guardando la cartina appare come un’enorme macchia verde, un cuore pulsante di vita.
Ci arriviamo nel pomeriggio, il sole rimane caldo ma la sua luce si fa già più morbida: attraversa le fronde degli eucalipti, è una presenza che si muove accanto a noi.
Il parco è ricco di passeggiate che promettono emozionanti incontri, ma non è l’unica sorpresa: qui si trova infatti un sito che non si esiterebbe a definire “mistico”, ma in cui Dio c’entra ben poco: le Remarkable Rocks, delle vere sculture aliene poste su una scogliera smussata che ha tutta l’aria di essere una pista d’atterraggio logorata dai secoli. Le vedi già dalla strada, svettare sopra gli arbusti verdi come una presenza estranea ma profondamente radicata. Processi geologici complessi le hanno generate, ma quando ti trovi in loro presenza conta poco la loro origine, sono così affascinanti da non aver bisogno di spiegazioni.
Il Flinders Chase National Park ha un centro visitatori per ogni informazione, ma come nella maggior parte dell’Australia, anche questo chiude alle 17. Fortuna che ci siamo passati prima.
Conosciamo i sentieri e i tempi di percorrenza, sono le sei (pm) e la calura della giornata si sta attenuando; siamo soli in un parco stupendo, ma cosa stiamo aspettando?!Già nel parcheggio ci saluta un piccolo wallaby che saltella via spaventato dal rumore del camper. Dentro il parco ne avviciniamo un altro che bruca con serenità tra gli alberi. Alza appena la testa e ci guarda con i grandi occhi scuri: è guardingo, certo, ma non sembra temerci, non ci fa sentire degli intrusi.
Siamo entusiasti ed è solo l’inizio. Infatti a pochi metri ci aspetta un altro bell’incontro: un’echidna, uno dei miei animali preferiti, goffo e tenero cammina nel sottobosco, solitario. Immaginiamo voglia passare inosservato, ma quel rumore di foglie secche schiacciate proprio non lo aiuta! E nemmeno la sua lentezza, ma almeno consente a noi di scattare qualche bella foto.
Siamo diretti verso i waterholes, dimora dei buffissimi ornitorinchi, che gli australiani chiamano in modo altrettanto bizzarro “platypuss”. È bello ritrovarsi completamente soli, a parte le mosche che non ci lasciano mai. Il sole è calato sull’orizzonte, la sua luce accarezza quella vegetazione estranea come un velluto, persino le ombre sembrano vive.
Nessuna creatura intorno a noi, nemmeno in un immenso prato che invece sembra il pascolo ideale per i canguri; ma non importa, la nostra passeggiata ha comunque qualcosa di mistico e molto intenso.
Nonostante tutta la magia il tempo scorre inesorabile e si fa davvero tardi, meglio non farsi cogliere dal buio. “Uscite entro le 20” ci hanno detto al centro visitatori. Così decidiamo di tornare indietro rinunciando ai platypuss, però quel luogo magnifico decide che non è giusto lasciarci andare via senza un regalo: all’improvviso scorgiamo un bellissimo canguro che bruca a un metro da noi, in quella enorme distesa erbosa che poco prima era deserta. Non alza nemmeno la testa mentre Mario gli gira attorno rubando foto, io invece sono totalmente catturata da quell’immagine, da quella vicinanza così reale eppure fantastica.
Ce ne andiamo con una grande gioia nel cuore. Ora non ci resta che gustarci una bella grigliatina di carne nel nostro spartano campeggio alle porte del Flinders Chase.
E mentre Mario si dedica a uno dei più antichi mestieri del genere maschile, io mi ritrovo a passeggiare nella penombra del crepuscolo. Ci sono pochissime altre persone e il tutto è immerso nel verde, senza delimitazioni, non sembra nemmeno un campeggio. Sono impegnata a guardare estasiata un cielo gonfio di stelle come mai avevo visto prima e non mi accorgo di essere arrivata in un immenso prato: lì un centinaio di canguri e wallabies sono impegnati a brucare, indifferenti alla mia presenza, silenziosi e bellissimi. Cammino tra loro senza destare alcuna paura e la sensazione di essere parte del loro mondo mi arriva spontanea, quasi un’epifania. Un’emozione fortissima. E Mario si sta perdendo tutto!
Mentre finiamo la nostra grigliata mista, acquistata in un folcloristico market di lamiera a Vivonne Bay (l’unico edificio semi-umano per decine di chilometri), decidiamo di svegliarci alle 5 perché anche Mario possa ammirare i veri abitanti del campeggio: il sole non è ancora sorto ma il cielo è già di perla, le loro sagome enormi si stagliano sull’erba chiara. Forse è per via del mattino che sono più timorosi di ieri sera: camminiamo lenti cercando di avvicinarci, ma subito scappano in quel loro buffo modo saltellante. Non importa, li abbiamo visti, siamo stati in mezzo a loro e già questo basta per rendere il nostro viaggio indimenticabile. Nessun hotel di lusso potrebbe mai eguagliare la sensazione di perfetta soddisfazione che abbiamo provato noi e lasciandoci alle spalle il Western Caravan Park ci siamo sentiti subito un po’nostalgici.
È già quasi finito il nostro viaggio a Kangaroo Island, tre giorni che sono volati sulle ali di intense emozioni. Passeremo l’ultima notte a Kingscote, una cittadina vicina a Pennashaw (da dove riprenderemo il traghetto) e in cui vogliamo provare a vedere una piccola popolazione di pinguini in un tour notturno che promette altri incontri fantastici.
Di certo non ci si aspettava che l’incontro più entusiasmante fosse con la guida: un eclettico sessantenne di origine inglese, ma trasferitosi a Kangaroo Island ben trent’anni fa; capigliatura grigia ribelle, cappello peruviano di lana, lingua sciolta piena di aneddoti di mare e non solo. Gestisce insieme a un amico un piccolo centro visitatori/acquario che ha messo su da solo e da lì parte con i gruppi di turisti per visitare la piccola colonia di pinguini che lui ha scoperto. È un’autodidatta pieno di passione che ama profondamente l’isola malinconica in cui si è trasferito, senza rimpianti né nostalgie e lo si sente in ogni parola e in ogni racconto. È simpatico e ironico, cosa che non avrei mai detto degli inglesi, e nonostante si riesca a vedere un solo pulcino (una delle creature più spupazzose, morbidose, tenerose che abbia mai visto in vita mia, persino più dei koala) la serata trascorre in modo piacevolissimo e ce ne andiamo felici di aver scelto un tour così insolito per salutare l’isola.
Lasciamo Kangaroo Island in una giornata assolata e ventosa, con il cuore emozionato e gli occhi ancora pieni delle meraviglie viste. Sarà forse questo il Paese di Alice?
ALICE
E infatti l’abbiamo trovata così: abbandonata, selvaggia, a tratti triste, ma estremamente emozionante. Sbarcati a Pennashaw con il nostro fidato camperino ci addentriamo nell’isola, direzione Seal Bay. La prima impressione non è delle migliori: numerosi pascoli aridi e abbandonati fanno pensare a un tentativo di sfruttamento andato male che però ha lasciato dei segni. Le strade asfaltate sono pochissime e quando ci si allontana dai radi centri urbani è come ritrovarsi immersi in un mondo parallelo fatto di solitudine, tanto verde, strade di terra rossa e spesso carcasse di canguri e goanna morti.
Per chi come noi ha sempre desiderato venire in Australia ritrovarsi in questi luoghi dà una sensazione fortissima, quasi carnale, come sognare e non riuscire più ad aprire gli occhi. Ma conviene spalancarli per bene quando si sale sulla Prospect Hill, il punto più alto della zona e che fu raggiunto per la prima volta dal noto esploratore, il capitano Matthew Flinders: da qui si può godere di una vista splendida che spazia dal Southern Ocean al Golfo di St Vincent (davanti ad Adelaide), abbracciando l’American River e la laguna dei pellicani. È una scalata dura sotto il sole, sebbene gli scalini agevolino molto il compito, ma ne vale la pena.
Seal Bay si trova sul lato meridionale dell’isola, una piccola baia di sabbia chiara e morbida circondata da dune ricoperte di arbusti. La nostra guida, un simpatico vecchietto che stranamente parla un inglese comprensibile ci dice che i leoni marini li usano come riparo durante l’inverno e in effetti sono così fitti da sembrare grotte verdi. Ma ora è l’inizio dell’estate (inizio dicembre) e una cinquantina di esemplari se ne stanno belli spaparanzati al sole, poco lontani dalla battigia. L’oceano ha un colore elettrico, il cielo terso e quelle creature così buffe e serene fanno pensare a un piccolo paradiso segreto. Il che non è molto lontano dalla realtà: nessun insediamento residenziale-turistico intacca questa zona e comunque in tutta l’isola ce ne sono pochissimi, ubicati soprattutto nella parte nord. Kangaroo Island è un immenso parco che viene professionalmente conservato dagli australiani (popolo molto furbo: in un paese senza attrattive storiche, la natura selvaggia può essere un’ottima fonte di guadagno).
Mi viene subito da pensare che devo essere stata un leone marino nella mia vita passata, ma ci pensa la guida a cancellare questa idea bislacca: il loro infatti è un riposo più che meritato, dopo aver trascorso tre giorni in oceano aperto per nutrirsi, combattendo contro correnti, acque fredde e squali bianchi. No, decisamente troppo per me.
L’incontro ci emoziona parecchio e riusciamo a viverlo completamente anche grazie a un oggetto "magico". Una retina da cappello. Niente di più banale eppure fondamentale perché quando spira vento da Nord (vento di terra), sulla costa arriva un vero flagello: le mosche, un’orda barbarica di insetti ronzanti che si posano su ogni cosa. Mai provato un fastidio del genere, ma per KI si sopporta questo e altro. La retina è stata di vitale importanza perché ci ha permesso di goderci una delle più emozionanti giornate del nostro viaggio. Risaliti sul nostro supermezzo siamo partiti alla volta dell’estremo occidente dell’isola, dove si trova il Flinders Chase National Park. Guardando la cartina appare come un’enorme macchia verde, un cuore pulsante di vita.
Ci arriviamo nel pomeriggio, il sole rimane caldo ma la sua luce si fa già più morbida: attraversa le fronde degli eucalipti, è una presenza che si muove accanto a noi.
Il parco è ricco di passeggiate che promettono emozionanti incontri, ma non è l’unica sorpresa: qui si trova infatti un sito che non si esiterebbe a definire “mistico”, ma in cui Dio c’entra ben poco: le Remarkable Rocks, delle vere sculture aliene poste su una scogliera smussata che ha tutta l’aria di essere una pista d’atterraggio logorata dai secoli. Le vedi già dalla strada, svettare sopra gli arbusti verdi come una presenza estranea ma profondamente radicata. Processi geologici complessi le hanno generate, ma quando ti trovi in loro presenza conta poco la loro origine, sono così affascinanti da non aver bisogno di spiegazioni.
Il Flinders Chase National Park ha un centro visitatori per ogni informazione, ma come nella maggior parte dell’Australia, anche questo chiude alle 17. Fortuna che ci siamo passati prima.
Conosciamo i sentieri e i tempi di percorrenza, sono le sei (pm) e la calura della giornata si sta attenuando; siamo soli in un parco stupendo, ma cosa stiamo aspettando?!Già nel parcheggio ci saluta un piccolo wallaby che saltella via spaventato dal rumore del camper. Dentro il parco ne avviciniamo un altro che bruca con serenità tra gli alberi. Alza appena la testa e ci guarda con i grandi occhi scuri: è guardingo, certo, ma non sembra temerci, non ci fa sentire degli intrusi.
Siamo entusiasti ed è solo l’inizio. Infatti a pochi metri ci aspetta un altro bell’incontro: un’echidna, uno dei miei animali preferiti, goffo e tenero cammina nel sottobosco, solitario. Immaginiamo voglia passare inosservato, ma quel rumore di foglie secche schiacciate proprio non lo aiuta! E nemmeno la sua lentezza, ma almeno consente a noi di scattare qualche bella foto.
Siamo diretti verso i waterholes, dimora dei buffissimi ornitorinchi, che gli australiani chiamano in modo altrettanto bizzarro “platypuss”. È bello ritrovarsi completamente soli, a parte le mosche che non ci lasciano mai. Il sole è calato sull’orizzonte, la sua luce accarezza quella vegetazione estranea come un velluto, persino le ombre sembrano vive.
Nessuna creatura intorno a noi, nemmeno in un immenso prato che invece sembra il pascolo ideale per i canguri; ma non importa, la nostra passeggiata ha comunque qualcosa di mistico e molto intenso.
Nonostante tutta la magia il tempo scorre inesorabile e si fa davvero tardi, meglio non farsi cogliere dal buio. “Uscite entro le 20” ci hanno detto al centro visitatori. Così decidiamo di tornare indietro rinunciando ai platypuss, però quel luogo magnifico decide che non è giusto lasciarci andare via senza un regalo: all’improvviso scorgiamo un bellissimo canguro che bruca a un metro da noi, in quella enorme distesa erbosa che poco prima era deserta. Non alza nemmeno la testa mentre Mario gli gira attorno rubando foto, io invece sono totalmente catturata da quell’immagine, da quella vicinanza così reale eppure fantastica.
Ce ne andiamo con una grande gioia nel cuore. Ora non ci resta che gustarci una bella grigliatina di carne nel nostro spartano campeggio alle porte del Flinders Chase.
E mentre Mario si dedica a uno dei più antichi mestieri del genere maschile, io mi ritrovo a passeggiare nella penombra del crepuscolo. Ci sono pochissime altre persone e il tutto è immerso nel verde, senza delimitazioni, non sembra nemmeno un campeggio. Sono impegnata a guardare estasiata un cielo gonfio di stelle come mai avevo visto prima e non mi accorgo di essere arrivata in un immenso prato: lì un centinaio di canguri e wallabies sono impegnati a brucare, indifferenti alla mia presenza, silenziosi e bellissimi. Cammino tra loro senza destare alcuna paura e la sensazione di essere parte del loro mondo mi arriva spontanea, quasi un’epifania. Un’emozione fortissima. E Mario si sta perdendo tutto!
Mentre finiamo la nostra grigliata mista, acquistata in un folcloristico market di lamiera a Vivonne Bay (l’unico edificio semi-umano per decine di chilometri), decidiamo di svegliarci alle 5 perché anche Mario possa ammirare i veri abitanti del campeggio: il sole non è ancora sorto ma il cielo è già di perla, le loro sagome enormi si stagliano sull’erba chiara. Forse è per via del mattino che sono più timorosi di ieri sera: camminiamo lenti cercando di avvicinarci, ma subito scappano in quel loro buffo modo saltellante. Non importa, li abbiamo visti, siamo stati in mezzo a loro e già questo basta per rendere il nostro viaggio indimenticabile. Nessun hotel di lusso potrebbe mai eguagliare la sensazione di perfetta soddisfazione che abbiamo provato noi e lasciandoci alle spalle il Western Caravan Park ci siamo sentiti subito un po’nostalgici.
È già quasi finito il nostro viaggio a Kangaroo Island, tre giorni che sono volati sulle ali di intense emozioni. Passeremo l’ultima notte a Kingscote, una cittadina vicina a Pennashaw (da dove riprenderemo il traghetto) e in cui vogliamo provare a vedere una piccola popolazione di pinguini in un tour notturno che promette altri incontri fantastici.
Di certo non ci si aspettava che l’incontro più entusiasmante fosse con la guida: un eclettico sessantenne di origine inglese, ma trasferitosi a Kangaroo Island ben trent’anni fa; capigliatura grigia ribelle, cappello peruviano di lana, lingua sciolta piena di aneddoti di mare e non solo. Gestisce insieme a un amico un piccolo centro visitatori/acquario che ha messo su da solo e da lì parte con i gruppi di turisti per visitare la piccola colonia di pinguini che lui ha scoperto. È un’autodidatta pieno di passione che ama profondamente l’isola malinconica in cui si è trasferito, senza rimpianti né nostalgie e lo si sente in ogni parola e in ogni racconto. È simpatico e ironico, cosa che non avrei mai detto degli inglesi, e nonostante si riesca a vedere un solo pulcino (una delle creature più spupazzose, morbidose, tenerose che abbia mai visto in vita mia, persino più dei koala) la serata trascorre in modo piacevolissimo e ce ne andiamo felici di aver scelto un tour così insolito per salutare l’isola.
Lasciamo Kangaroo Island in una giornata assolata e ventosa, con il cuore emozionato e gli occhi ancora pieni delle meraviglie viste. Sarà forse questo il Paese di Alice?
ALICE